Corte costituzionale – Le novità di luglio 2025 in materia di lavoro

La Corte Costituzionale è di recente intervenuta su tematiche cruciali in materia di diritto del lavoro, con impatti diretti sui licenziamenti ed i congedi parentali. In particolare, le sentenze che andremo ad analizzare delineano un quadro in evoluzione del diritto del lavoro, orientato a:
- rafforzare i diritti dei lavoratori in condizioni di vulnerabilità,
- estendere diritti sociali a nuove configurazioni familiari,
- rivedere la sanzionabilità delle cooperative che si sottraggono all’attività di vigilanza,
- superare schemi risarcitori standardizzati in favore di tutele più efficaci e dissuasive.
Queste le novità contenute nelle pronunce della Consulta.
- Impugnazione del licenziamento e stato di incapacità naturale (sentenza n. 111/2025)
La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’articolo 6, comma 1, della Legge n. 604/1966, nella parte in cui non contempla il caso in cui, durante il periodo di impugnazione del licenziamento (60 giorni dalla ricezione della comunicazione di licenziamento), il lavoratore versi in uno stato di incapacità naturale (incapacità di intendere e di volere).
La decisione prende le mosse da un caso concreto in cui una lavoratrice, colpita da grave depressione e sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio, non era stata in grado di impugnare tempestivamente il licenziamento. Solo in seguito, una volta ristabilita, aveva agito legalmente.
In definitiva, in caso di incapacità naturale non si applica il termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale. Rimane valido il termine massimo complessivo di 240 giorni, comprensivo di contestazione e successiva azione giudiziaria o attivazione di procedura conciliativa. Logicamente, per avvalersi di questa “agevolazione”, è necessario che il lavoratore documenti, in modo idoneo, lo stato di incapacità del lavoratore.
È il caso, comunque, che il datore di lavoro valuti con attenzione i casi di lavoratori che, al momento del recesso, si trovano in condizione di fragilità psicologica o sanitaria.
- Congedo di paternità obbligatorio anche per la “seconda” madre (sentenza n. 115/2025)
La Consulta ha ritenuto incostituzionale l’articolo 27-bis, del Decreto Legislativo n. 151/2001, per violazione dei principi di uguaglianza e non discriminazione, laddove non contempla l’ipotesi di coppie omogenitoriali femminili in cui entrambe le madri siano registrate nei registri dello stato civile.
I giudici hanno affermato che anche la madre intenzionale, non biologica ma legalmente riconosciuta, ha diritto al congedo previsto per la figura paterna.
Il progetto genitoriale condiviso, in linea con la volontà di cura e di responsabilità verso il minore, ha un rilievo determinante, indipendentemente dalla composizione di genere della coppia.
Affinché ci sia un reale riconoscimento del diritto al congedo, ci sarà bisogno di una circolare dell’INPS che riconosca questa possibilità, andando a modificare la procedura telematica in essere.
- Scioglimento delle cooperative perché si sottraggono agli inviti dell’autorità di vigilanza (sentenza n. 116/2025)
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 3, secondo periodo, del decreto legislativo n. 220/2002, nella parte in cui prevede che agli enti cooperativi che si sottraggono all’attività di vigilanza si applica il provvedimento di scioglimento per atto dell’autorità, anziché stabilire che l’autorità di vigilanza nomina un commissario ai sensi dell’articolo 2545-sexiesdecies del codice civile, anche nella persona del legale rappresentante o di un componente dell’organo di controllo societario, che si sostituisce agli organi amministrativi dell’ente, limitatamente al compimento degli specifici adempimenti indicati.
Lo scioglimento delle cooperative solo perché si sottraggono agli inviti dell’autorità di vigilanza, e quindi a prescindere dalla verifica sull’effettivo conseguimento delle finalità mutualistiche, integra una sanzione amministrativa sproporzionata, violando perciò l’articolo 3 e l’articolo 45 della Costituzione, che riconosce la funzione sociale della cooperazione.
La Corte ha rimarcato che quest’ultima disposizione costituzionale non è «comune nel panorama comparatistico: una tale valorizzazione trova infatti la sua giustificazione negli strati profondi della società di allora, che metteva di fronte ai costituenti l’imponente movimento cooperativo sviluppatosi in Italia a partire dalla metà dell’Ottocento».
Ancora oggi, ha affermato la Corte, il modello cooperativo, «ascrivibile all’ambito dell’economia civile», rappresenta «una forma avanzata di impresa anche in sistemi socialmente evoluti, che non è surrogabile dal nuovo fenomeno delle società benefit», perché l’impresa cooperativa si contraddistingue per «elementi del tutto peculiari: la mutualità, che ne costituisce la missione fondante, ricollegandosi ai principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale, e la democraticità, che ne informa il modello di governance», nonché la «creazione di ricchezza intergenerazionale, devoluta tramite i fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione».
La sentenza è giunta a questa conclusione ponendo in rilievo che, nonostante la sua «perdurante e attuale» funzione sociale, «oggi il modello cooperativo sta attraversando una grave crisi, attestata dal tasso di crescita ormai da alcuni anni costantemente negativo, a dispetto di quello del totale delle imprese» e che a determinare tale fenomeno, rilevato negli ultimi anni, concorrono senza dubbio plurimi fattori, tra i quali riveste «un ruolo anche l’assetto legislativo, nel quale, a fronte della perdita di peso dei vantaggi fiscali, sono state introdotte normative non particolarmente incentivanti per questa tipologia di impresa».
- Indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese (sentenza n. 118/2025)
La Corte Costituzionale ha giudicato incostituzionale l’articolo 9, comma 1, del Decreto Legislativo n. 23/2015 (Tutele Crescenti), che stabilisce il tetto massimo di 6 mensilità per l’indennità spettante al lavoratore licenziato illegittimamente da un datore di lavoro con meno di 15 dipendenti per unità produttiva (o meno di 60 in totale). Ciò in quanto restringe eccessivamente il margine di discrezionalità del giudice, ostacolando l’attribuzione di un risarcimento adeguato e personalizzato. Inoltre, secondo i giudici, preclude la funzione deterrente dell’indennità rispetto ai comportamenti illeciti del datore di lavoro.
In virtù di questa sentenza, le aziende al di sotto dei 16 dipendenti non potranno più fare affidamento ad un limite massimo di 6 mensilità, in quanto il giudice potrà commisurare l’indennità in base ai seguenti parametri:
- gravità del vizio di illegittimità del licenziamento,
- anzianità di servizio del lavoratore,
- numero dei dipendenti occupati,
- dimensioni dell’attività economica,
- comportamento e condizioni delle parti.
La Corte ha auspicato, infine, un intervento legislativo riformatore, capace di considerare indicatori diversi dal solo numero dei dipendenti per definire la capacità risarcitoria di un’impresa.
- Il rapporto di convivenza non fa venir meno il diritto all’Assegno Familiare (sentenza n. 120/2025)
La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Venezia, sezione lavoro, in relazione all’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 797/1955. Questa norma stabilisce che l’assegno per il nucleo familiare non spetta al coniuge del datore di lavoro, senza invece escludere il diritto al beneficio in caso di convivenza di fatto tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato. Tale differenziazione, secondo il rimettente, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione.
La Corte ha chiarito che la ratio dell’articolo 2 del d.P.R. n. 797/1955 può essere ravvisata nell’esigenza di non erogare il beneficio a un nucleo familiare comprendente lo stesso datore di lavoro, al fine di evitare una forma di “autofinanziamento”. Dunque, la norma censurata non può ritenersi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione per il fatto di non assimilare, ai fini dell’esclusione dall’ANF, il convivente di fatto al coniuge, dal momento che, ai fini della concessione dell’ANF e della sua quantificazione, il nucleo familiare comprende solo il coniuge e non il convivente di fatto, in base all’articolo 2, comma 6, del decreto-legge n. 69 del 1988. La convivenza di fatto rileva solo in presenza di un contratto di convivenza, stipulato ai sensi dell’articolo 1, comma 50, della legge n, 76 del 2016.
La disciplina dell’ANF risulta, pertanto, armonica, vista la coerenza tra la mancata considerazione della convivenza ai fini della concessione dell’assegno e la stessa mancata considerazione ai fini della sua esclusione.
Autore: Dott. Roberto Camera