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30 Marzo 2017 | Approfondimenti tecnici

Al rientro da una trasferta durata trent’anni il lavoratore si scopre trasfertista

Si pregustava già il Veglione di San Silvestro che, quella sera del 31 dicembre, avrebbe dato il benvenuto all’anno 1987 quando, sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 – Supplemento Ordinario n.126, veniva pubblicato il DPR 917 di approvazione del Testo Unico delle Imposte sui Redditi che ancora oggi, seppur di anno in anno oggetto di un taglia e cuci indispensabile per stare al passo dei tempi, resta la fonte gerarchica principale in ambito fiscale e, per armonizzazione, degli anni ’90 anche previdenziale.
Tra i tanti articoli, commi, lettere ed annotazioni che i professionisti hanno fino ad oggi avuto il piacere(?!) di applicare, interpretare, commentare e – a volte – ignorare, in materia lavoristica uno dei più letti e riletti è sicuramente l’art. 51 (originariamente era numerato con il 48) dedicato letteralmente alla Determinazione del reddito di lavoro dipendente.
Figlio dei più recenti aggiornamenti, il comma 6 del citato articolo dispone che concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente, nella misura del 50 per cento del loro ammontare, “(…) le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità (…)” e che, “(…) con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, possono essere individuate categorie di lavoratori e condizioni di applicabilità della (…) disposizione (…)”.
Ebbene, a dispetto del preannunciato decreto – mai “concertato” tra il Ministro delle finanze e quello del lavoro – l’individuazione di quei soggetti cui tale disposizione andava applicata non è mai stata ufficialmente disposta. Le differenze tra un lavoratore in trasferta (comma 5 dell’art. 51 TUIR) ed un collega trasfertista ex comma 6 da anni sono state lasciate dapprima alle interpretazioni degli “addetti ai lavori”, alle pattuizioni collettive e/o individuali e poi, dal 1993 (Corte costituzionale, sentenza n. 239/1993), anche all’intervento della giurisprudenza e della prassi (Circ. 326/E/1997 del Ministero delle finanze e Messaggio Inps 27271/2008).
Secondo i Giudici Costituzionali si ritenne, infatti, “(…) che, per i compensi corrisposti a (…) lavoratori impropriamente indicati come “trasfertisti”, non si versi in tema di indennità di trasferta, ma di retribuzione per le attività lavorative che comportino un continuo movimento del dipendente per raggiungere – con mezzi di solito messi a disposizione dal datore di lavoro – località diverse, determinabili sulla base delle opere da eseguire ovvero per la natura dell’attività (…), oggetto stesso del rapporto di lavoro (…)” in quanto “(…) si è costantemente ritenuto – in numerose decisioni della Cassazione – che la retribuzione imponibile comprende integralmente quanto corrisposto ai cosiddetti “trasfertisti”, in quanto correlato alla causa tipica e normale del rapporto (…)”.
A colmare questo vuoto normativo, in luogo del citato e mai concertato decreto, è intervenuto il Legislatore solo recentemente secondo quanto stabilito dall’art. 7-quinquies, D.L. 22/10/2016, n. 193, così come inserito dall’allegato alla Legge di conversione, L. 01/12/2016, n. 225 con decorrenza dal 3 dicembre 2016.
Si tratta di una c.d. “interpretazione autentica” partorita ben trent’anni dopo la pubblicazione del Testo Unico delle Imposte sui Redditi; decisamente un periodo sufficiente per definire, una volta per tutte, “chi” dobbiamo considerare trasfertista e, di conseguenza, quali regole di imponibilità è doveroso applicare agli importi destinati a ristorare il disagio tipico della mansione.
Pertanto, il comma 6 si deve interpretare nel senso che i lavoratori rientranti nella disciplina ivi stabilita, quella dei “trasfertisti”, sono quelli per i quali sussistono contemporaneamente le seguenti condizioni:

a) mancata indicazione della sede di lavoro nel contratto individuale di lavoro (o lettera di assunzione);
b) svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
c) corresponsione al dipendente di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.
Trattandosi di norma di interpretazione autentica, la stessa ha una valenza retroattiva fin dalla data di entrata in vigore del comma 6 del TUIR (1° gennaio 1998). Fermo restando, quindi, i termini di prescrizione quinquennale le aziende che, in questi anni, avessero gestito le somme erogate ai lavoratori in trasferta assoggettandole ad imposizione per il 50%, sia per scelta, per precauzione o per necessità derivante da un’imposizione amministrativa o da sentenza, si ritiene possano recuperare quanto versato in eccesso sempre che la trasferta sia avvenuta in difetto di una delle condizioni indicate dal legislatore per essere considerati trasfertisti.
Per il presente ed il futuro, invece, è doveroso il richiamo all’attenzione nella predisposizione della lettera di assunzione trattandosi di una delle fonti, richiamate dal Legislatore, delle condizioni fondanti la figura del trasfertista, sia per quanto concerne l’indicazione o, meglio, la mancata indicazione della sede di lavoro sia per l’attribuzione – fin dall’assunzione – di un’indennità (o maggiorazione), quantificata in misura fissa, a corredo della condizione di trasfertista.
Ricordiamo che, laddove le caratteristiche del trasfertismo non siano soddisfatte simultaneamente, trova applicazione il regime normativo ordinario della trasferta.
Quindi, prima di preparare i bagagli per il check-in, predisponiamo idonea check-list…

Luca Bianchin, Consulente del lavoro