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04 Agosto 2016 | Approfondimenti tecnici

Il demansionamento del dipendente

Il D.Lgs. n. 81 del 2015, entrato in vigore il 25 giugno 2015, ha significativamente modificato l’art. 2103 cod. civ., che disciplina l’esercizio dello jus variandi riconosciuto dalla legge al datore di lavoro, ossia il potere di modificare, entro determinati limiti ed a determinate condizioni, le mansioni attribuite al dipendente.

La riforma è stata operata con l’obiettivo di garantire all’azienda una maggiore flessibilità gestionale attraverso il contemperamento, da un lato, dell’interesse datoriale all’utile impiego del personale e, dall’altro, dell’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche.

Il demansionamento del dipendente può ora avvenire secondo due modalità:

A] In primo luogo, è stato riconosciuto al datore di lavoro il potere di adibire unilateralmente (e, quindi, senza il necessario consenso del dipendente) il lavoratore a mansioni inferiori, purché rientranti nella medesima categoria legale di appartenenza (ex art. 2095 cod. civ.: operai, impiegati, quadri, dirigenti).
Tale modifica in pejus può essere operata in caso di mutamento degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore o in altre ipotesi eventualmente previste dai contratti collettivi.
Il datore di lavoro deve, tuttavia, comunicare per iscritto – a pena di nullità – il mutamento della mansione e garantire al lavoratore la conservazione del livello di inquadramento, della categoria e del trattamento retributivo precedentemente riconosciutigli. Inoltre, laddove sia necessario, il datore di lavoro ha l’obbligo di impartire al dipendente la corretta formazione per l’esecuzione della nuova mansione: qualora il datore di lavoro non provveda a ciò, non potrà sanzionare disciplinarmente il dipendente per eventuali errori commessi nello svolgimento della nuova attività lavorativa.
Questa nuova ipotesi di demansionamento introdotta con la riforma normativa si affianca, pertanto, a quelle precedentemente esistenti, ossia: sussistenza di condizioni di invalidità, disabilità o inabilità professionale allo svolgimento delle mansioni; inidoneità alla mansione specifica o esposizione ad agente chimico, fisico o biologico; lavoratrice in gravidanza sino a sette mesi dopo il parto; accordo sindacale concluso nell’ambito di procedure di licenziamento collettivo che preveda il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori; specifiche intese raggiunte nell’ambito di contratti collettivi c.d. “di prossimità” di cui all’art. 8 del D.L. n. 138/2011 (anche se vi è il dubbio che tale disposizione sia stata implicitamente abrogata dal novellato art. 2103 cod. civ.).
Inoltre, negli ultimi anni la Suprema Corte di Cassazione aveva già giudicato legittime le seguenti ipotesi di demansionamento: patto di demansionamento volto ad evitare il licenziamento del dipendente; demansionamento in presenza di esigenze aziendali “serie e ragionevoli”; assegnazione di mansioni inferiori al personale non scioperante in servizio per limitare gli effetti di uno sciopero.

B] In secondo luogo, la nuova formulazione dell’art. 2103 cod. civ. introduce un’altra ipotesi di demansionamento del dipendente, concordata mediante un c.d. “patto di demansionamento”.
Tale patto individuale di demansionamento può essere concluso tra il datore di lavoro ed il dipendente in una delle sedi protette previste dall’art. 2113, comma 4, cod. civ. (direzione territoriale del lavoro, sede sindacale, autorità giudiziaria, collegio di conciliazione e arbitrato) e dall’art. 76 del D.Lgs. n. 276/2003 (commissione di certificazione), qualora ricorra uno dei tre presupposti giustificativi stabiliti dal legislatore: conservazione dell’occupazione; acquisizione di una diversa professionalità; miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore.

A differenza dell’ipotesi di modifica unilaterale della mansione precedentemente descritta (sub A]), con il patto di demansionamento il datore di lavoro può modificare non solo le mansioni del lavoratore, ma anche il suo livello di inquadramento e la relativa retribuzione.

La violazione di quanto disposto dall’art. 2103 cod. civ. comporta la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal dipendente in ragione dell’illegittimo utilizzo dello jus variandi. Naturalmente, l’onere della prova circa il danno patito grava sul dipendente.
In particolare, laddove il lavoratore riuscisse ad assolvere all’onere della prova relativo ai danni patiti, il datore di lavoro potrebbe essere condannato dal Giudice a risarcire, da un lato, il danno patrimoniale (inteso come perdita di chance e perdita delle differenze retributive) e, dall’altro, il danno non patrimoniale (inteso come danno alla professionalità e danno biologico per lesione dell’integrità psicofisica).

La riforma ha, pertanto, recepito i più recenti orientamenti giurisprudenziali, riconoscendo al datore di lavoro una maggiore flessibilità organizzativa e rafforzando il potere imprenditoriale.
Inoltre, l’intervento legislativo ha attribuito un ruolo centrale alla contrattazione collettiva, anche aziendale, ed ha valorizzato l’autonomia individuale attraverso accordi sottoscritti in “sede protetta”. La riforma potrebbe, quindi, portare ad una riduzione del contenzioso in materia e favorire una più agile gestione dell’impresa.

dott.ssa Roberta Amoruso