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05 Settembre 2018 | Approfondimenti tecnici

WhatsApp e rapporto di lavoro

<<Ti mando un vocale, di dieci minuti, soltanto per dirti….>> 

No, tranquilli, non voglio cimentarmi in una dissertazione musicale!

Approfitto del ritornello di un recente successo dei Thegiornalisti per introdurre l’argomento in oggetto; dove per “vocale” sappiamo che il testo della canzone vuole richiamarci ad una particolare tipologia di messaggio (da ascoltare, appunto) previsto dalla più conosciuta App di messaggistica presente sulla quasi totalità dei nostri Smartphone: WhatsApp!

…e non voglio neppure affrontare l’argomento tediando i lettori con i miei personali dubbi sull’utilizzo che (alcuni) nostri clienti fanno di tale strumento, tempestandoci di foto di documenti per non passare in studio o inviare un’email (senza magari fare caso alla falange fotografata che copre parte della lettera di assunzione firmata o l’evidenza della tovaglia a quadretti utilizzata come sfondo dello scatto) o – peggio (a modestissimo parere personale) – con il canoro e già citato “vocale” con il quale ci spiegano che dobbiamo, con urgenza ovviamente, predisporre una contestazione disciplinare o addirittura un licenziamento.

L’intenzione del sottoscritto è cercare – in poche righe – di definire i limiti ma anche sottolineare le potenzialità dell’utilizzo di WhatsApp nella gestione ed amministrazione del personale nella sua duplice direzione “dal datore di lavoro al lavoratore” e “dal lavoratore al datore di lavoro”.

Rientrando, quindi, nell’alea di serietà e professionalità che dovrebbe distinguerci accingiamoci subito a rispondere ad una prima, importantissima, domanda: le chat di WhatsApp hanno valore legale/giuridico?

Sotto il profilo probatorio la giurisprudenza di merito, nello specifico il Tribunale di Ravenna con Sentenza n. 231/17 del 10 marzo 2017, ha avuto modo di identificare i messaggi WhatsApp come delle vere e proprie prove documentali, rientranti nella disciplina dell’art. 2712 c.c., la quale identifica come effettivi mezzi di prova, utilizzabili in giudizio, le “riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fotografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose, (…)” nel caso in cui non ne venga contestata la conformità ai fatti o alle cose a cui si riferiscono, da parte del soggetto nei confronti del quale vengono ad essere prodotte.

Dobbiamo ricordare che, in tal senso e qualche anno prima, la Cassazione si era già espressa, seppur indirettamente, attribuendo piena valenza probatoria ai messaggi SMS ed alle immagini contenute negli MMS, (esempio: Cass. Civ. sentenze n. 866/2000 e n. 9884/2005).

Senza entrare nel merito degli aspetti processuali che non mi competono, richiamo solo le risultanze della a cui è giunto, il 24/10/2017, il Tribunale di Milano – Sezione Lavoro che richiama la necessità di acquisizione del supporto informatico (smartphone o computer) contenente la conversazione non risultando sufficiente a suffragare la validità dei messaggi di WhatsApp la semplice produzione di stampe in assenza dell’apposito supporto informatico contenente le registrazioni oggetto della contesa.

Se parliamo di Sezione Lavoro di un Tribunale, non possiamo non richiamare alla memoria l’ormai famoso licenziamento intimato via WhatsApp affrontato dai Giudici di Catania poco più di un anno fa (Trib. Catania, Sez. Lavoro, ordinanza del 27/06/2017). In quella sede veniva data conferma al fatto che il recesso intimato via WhatsApp appare idoneo ad assolvere l’onere di forma scritta prescritto dalla legge quando risulti incontestata la provenienza della comunicazione dal datore di lavoro.

Tra l’altro, nel caso di specie, parte convenuta aveva dato ulteriore certezza alla comunicazione social con successiva impugnazione; infatti, testuale dall’Ordinanza stessa: “Il recesso intimato mezzo “whatsapp” il 25.3.2015 appare infatti assolvere l’onere della forma scritta (cfr. su fattispecie analoga App. Firenze, 05-07-2016), trattandosi di documento informatico che parte ricorrente ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale in data 23.4.2015.”

Ciò che è necessario, ovviamente, è che il datore di lavoro abbia contezza di provare che la comunicazione sia arrivata al destinatario. Sotto questo aspetto, le caratteristiche delle chat WhatsApp assumono un ruolo fondamentale, consentendo, come è noto, a seconda delle spunte che appaiono di fianco al messaggio, di stabilire se questo sia stato o meno consegnato e se sia stato letto dal destinatario, con le rispettive indicazioni della data e dell’ora della ricezione e della lettura.

Come detto, però, l’intenzione è quella di effettuare una breve panoramica degli utilizzi (leciti) di WhatsApp nell’alveo del rapporto di lavoro subordinato; pensiamo, ad esempio, all’App come strumento di comunicazione di assenze e/o ritardi oppure per formalizzare istanze del lavoratore (es. richiesta ferie o autorizzazione preventiva ad effettuare lavoro straordinario) oppure comunicazioni aziendali (es. periodo di consegna buste paga presso l’ufficio del personale, eventi particolari, pubblicazione in bacheca aziendale di determinati avvisi o notizie, etc.)

Al riguardo, con la sentenza n. 8802/2017, il Tribunale di Roma ha sdoganato l’utilizzo di WhatsApp per la comunicazione dell’assenza per malattia; la chat è stata ritenuta un canale di trasmissione idoneo per tale finalità in quanto “(…) i messaggi di WhatsApp sono considerati più idonei anche più di una raccomandata o di un sms”.

Pertanto, se l’impresa ritiene di voler utilizzare questo canale – che tra i tanti ha l’indiscusso vantaggio dell’immediatezza della comunicazione – per la gestione delle comunicazioni da e per i propri lavoratori, ritengo opportuno consigliare la formalizzazione di una corretta policy dedicata alla definizione di modalità e tempistiche di utilizzo/comunicazione nonché per esplicitare sia il numero di cellulare aziendale (o più di uno se, per la complessità aziendale, si decide di distribuire su più reparti la gestione delle comunicazioni in entrata e uscita) che quello del lavoratore  (forse anche più importante).

Dovranno essere, altresì, definite le regole (modi e tempi) di informazione circa eventuali variazioni di numero (per cambio operatore, etc.) al fine di evitare discussioni circa il corretto o mancato recapito dei messaggi; alla stregua di quello che già viene richiesto in materia di residenza e/o domicilio del lavoratore. Pensiamo, ad esempio, agli oneri ex art. 7 Legge 300/70 per ciò che concerne la contestazione di un illecito disciplinare.

Le comunicazioni inviate al domicilio indicato dal lavoratore (in questo caso, una volta formalizzata la procedura, “al numero di cellulare indicato dal lavoratore”) si presumono da questi conosciute in base alla regola ordinaria di cui all’articolo 1335, Codice civile; per cui è onere del lavoratore quello di comunicare il nuovo, temporaneo, recapito, diverso da quello conosciuto dal datore di lavoro (Tribunale di Monza, 15 giugno 1989). Per altro verso è da considerare che il rifiuto del lavoratore di comunicare il proprio domicilio effettivo, in presenza di un’esplicita richiesta del datore in tal senso, ha esso stesso un autonomo rilievo disciplinare, in quanto comportamento contrario agli obblighi di diligenza del prestatore di lavoro (articolo 2104, Codice civile) e di buona fede nell’esecuzione del contratto (articolo 1375, Codice civile).

Allo stesso modo, però, onde evitare spiacevoli disguidi, il mio ulteriore consiglio è di non forzare troppo la mano in questo periodo di evoluzione dei mezzi di comunicazione e di limitare l’utilizzo dei social media (WhatsApp in primis) a comunicazioni di carattere ordinario, organizzativo ed amministrativo lasciando, ad esempio, i licenziamenti al solo “esempio di scuola” ed alla innovativa sentenza di Catania rimandando all’ordinario canale postale l’ufficialità della comunicazione; stesso discorso, ovviamente, per quanto concerne i procedimenti disciplinari.

…altrimenti, parafrasando la già citata hit musicale, ci accorgeremmo che “(…) questa felicità, che dura un minuto, (…) che botta ci dà!”

Luca Bianchin, Consulente del lavoro