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31 Luglio 2020 | Approfondimenti tecnici

Nuova bocciatura del Jobs Act da parte della Corte Costituzionale. Form-App news

Nuova bocciatura del Jobs Act da parte della Corte Costituzionale. Form-App news

La Corte Costituzionale, investita dai Tribunali di Bari e di Roma, si è nuovamente pronunciata con riferimento ad una delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 23 del 2015 (“Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”) e precisamente con riferimento all’articolo 4, secondo cui “Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.

In particolare, secondo i Giudici rimettenti, il congegno automatico di quantificazione dell’indennità descritto dall’articolo 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015 violerebbe in primo luogo i principi di ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall’articolo 3 della Costituzione, in quanto un siffatto meccanismo, per un verso, non terrebbe conto delle diverse gradazioni di gravità delle violazioni procedurali e dei diversi pregiudizi che il licenziamento illegittimo per questioni di forma arreca in base alle condizioni delle parti, all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell’azienda; per altro verso, il meccanismo automatico di calcolo non garantirebbe una adeguata tutela al diritto a essere licenziati solo all’esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtù di un provvedimento chiaro, espresso, specifico, motivato e neppure sarebbe congruo rispetto alla finalità di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma.

Non solo, i Giudici di Bari e Roma riterrebbero la norma in esame lesiva altresì degli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione, sul presupposto che, stabilendo un criterio di commisurazione dell’indennità automaticamente ed unicamente legato all’anzianità di servizio, appronterebbe una tutela inadeguata, così come peraltro già affermato dalla Corte Costituzionale in altre occasioni.

La Corte Costituzionale, ad esito del giudizio, ha accolto le censure di costituzionalità sollevate dai Giudici rimettenti ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma citata limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Più precisamente, la Corte ha affermato che la disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura deve essere incardinata nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza  di cui all’articolo 3 della Costituzione, così da garantire una tutela adeguata, in considerazione degli interessi di rilievo costituzionale coinvolti quali l’obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio, riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli articoli 4 e 35 della Costituzione, che impone al legislatore di circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il recesso del datore di lavoro.

Ha affermato, infatti, la Corte: “La prudente discrezionalità del legislatore, pur potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria, attraverso la predeterminazione dell’importo spettante al lavoratore, non può trascurare la valutazione della specificità del caso concreto. Si tratta di una valutazione tutt’altro che marginale, se solo si considera la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Nel rispetto del dettato costituzionale, la predeterminazione dell’indennità deve tendere, con ragionevole approssimazione, a rispecchiare tale specificità e non può discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si adotta un meccanismo rigido e uniforme”.

La Corte Costituzionale ha aggiunto, inoltre: “Nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell’indennità, terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto. […]

Ben potranno venire in rilievo, a tale riguardo, la gravità delle violazioni, enucleata dall’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, previsione applicabile ai vizi formali nell’àmbito della tutela obbligatoria ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012”.

E, infine, ha concluso affermando che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.

Come, infatti, ricordato dalla Corte Costituzionale, questa non è la prima censura avanzata con riferimento al D.Lgs. n. 23 del 2015.

Con la sentenza n. 194 in data 8 novembre 2018 la Corte aveva già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23 del 2015 in materia di licenziamenti privi degli estremi del giustificato motivo oggettivo o soggettivo o della giusta causa, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” per ragioni simili a quelle già richiamate nel presente articolo con riferimento alla più recente pronuncia del 16 luglio 2020.

Allo stesso modo, con decisione dell’11 febbraio 2020, il Comitato europeo dei diritti sociali ha ritenuto contraria all’articolo 24 della Carta sociale europea adottata a Torino nel 1961 e rivista a Strasburgo nel 1996, ratificata all’Italia e resa esecutiva con la legge n. 30 del 9 febbraio 1999, la fissazione di un tetto massimo che svincoli le indennità, come quella prevista dai censurati articoli 3, comma 1, e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, dal danno subìto.

Secondo l’orientamento del Comitato europeo dei diritti sociali, il rimedio compensatorio, ove previsto in alternativa rispetto alla reintegrazione, rappresenta una adeguata forma di riparazione soltanto quando assicura un ristoro tendenzialmente integrale del danno provocato dal licenziamento illegittimo.

Autrice: Avv. Roberta Amoruso