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08 Giugno 2017 | Approfondimenti tecnici

Patto di durata minima e libere dimissioni del lavoratore

Senza fronzoli affrontiamo l’argomento corrente partendo da un assunto (ritengo) consolidato: con le dimissioni, oggi nella loro versione 2.0 ex Dlgs 151/2015, il lavoratore comunica al datore di lavoro la propria volontà di recedere dal rapporto di lavoro subordinato; si sostanzia così il più comune atto unilaterale recettizio che la materia giuslavoristica conosca.

Anche se il nostro codice civile non definisce il concetto di negozio giuridico siamo soliti – grazie ad un’astrazione giuridica che recupera le caratteristiche comuni di molti atti unilaterali – considerarlo una manifestazione di volontà con la quale i soggetti enunciano gli effetti che vogliono conseguire. A tal guisa la definizione classica che la dottrina dà del negozio giuridico è quella di “dichiarazione di volontà con la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti ed alla quale l’ordinamento giuridico ricollega effetti giuridici conformi al risultato voluto” (Torrente), o, più semplicemente, la “dichiarazione di volontà diretta ad effetti giuridici che l’ordinamento riconosce e tutela”.

Col concetto di negozio giudico viene posto al centro del diritto civile l’idea della volontà del singolo.

Detto ciò ci si pone l’ulteriore domanda: posso in qualche modo limitare la volontà del singolo o, quantomeno, gli effetti che tale espressione può produrre?

Ovviamente non possiamo, in tema di dimissioni volontarie, impedire che tale atto unilaterale recettizio non produca gli effetti desiderati (in questo caso l’uscita volontaria dal mercato del lavoro); non esiste, infatti, la figura del “lavoratore coatto” o la possibilità di incatenare il ns. impiegato alla scrivania facendo orecchie da mercante rispetto alle dimissioni da questi presentate. Non possiamo neppure – mutuando un improvvido quanto irreale gergo calcistico – “respingere le dimissioni” del nostro dipendente alla stregua un vituperato allenatore in zona retrocessione.

Quello che il nostro ordinamento consente, invece, è la possibilità di attenuare il contraccolpo – spesso economico – che le dimissioni (legittime) di un lavoratore possono comportare all’organizzazione aziendale.

Generalmente l’ingresso di un nuovo dipendente nell’organigramma dell’impresa è accompagnato da un insieme di costi (diretti e non) il più delle volte collegati o collegabili al sistema della formazione professionale dedicata; e questi costi, che l’imprenditore sostiene con l’idea di “profilare” il neoassunto rispetto alle esigenze aziendali, capita altrettanto spesso che vadano a fondo perduto a fronte del prematuro abbandono del posto di lavoro da parte del soggetto neoformato.

Al fine di attenuare tale rischio, le parti contrattuali possono sottoscrivere un vero e proprio patto di stabilità (o anche di durata minima garantita); un accordo col quale il datore di lavoro ed il prestatore si impegnano a non recedere dal rapporto per un certo tempo salvo, ovviamente, il ricorrere di una giusta causa ex art. 2119 c.c. o qualora vi sia impossibilità nell’adempimento della prestazione ai sensi degli artt. 1463 e 1464 c.c..

Al rapporto di lavoro che va ad instaurarsi è, pertanto, apposta una clausola di durata minima, liberamente concordata tra le parti che, ferma restando la libera recedibilità in vigenza del periodo di prova eventualmente pattuito, impegna entrambe o una sola a non recedere dal rapporto prima che sia decorso un determinato periodo; si pensi, ad esempio, di considerare un’anzianità minima utile ad ammortizzare i costi sostenuti per formare ad hoc una figura commerciale o manageriale o un particolare tecnico.

In questo caso, ad esempio, la risoluzione anticipata da parte del lavoratore senza il rispetto dei presupposti summenzionati porterà quest’ultimo a corrispondere al datore di lavoro, fatto salvo l’eventuale maggior danno, un determinato corrispettivo a titolo di penale per l’insegnamento e la formazione impartiti preventivamente quantificato e concordato in sede di sottoscrizione del patto di stabilità (coincidente o anche successivo all’ingresso in azienda). Al datore di lavoro è riconosciuta la facoltà, al fine di coprire l’intero risarcimento subito, di rifarsi sugli importi maturati dal lavoratore a titolo di TFR ovvero ad ogni altro titolo maturato nel corso del rapporto di lavoro e/o di azionarne per intero o parzialmente, per le parti non compensate, la richiesta nei confronti del lavoratore.

In materia, recentemente, un tribunale territoriale (Tribunale Velletri, 21 febbraio 2017, n. 305) ha affrontato la questione, già comunque figlia di consolidata giurisprudenza, confermando la possibilità per le parti di stipulare dei contratti di durata minima garantita.

La stessa Cassazione, con la sentenza 26 ottobre 2016, n. 21646 della sezione lavoro, ha sancito il principio che “(…) il lavoratore subordinato, come ha facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro (v. Cass. n. 17010/2014; Cass. n. 17817/2005), così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo minimo di durata”.

Tornando al Giudice laziale, questi ha confermato come il patto possa essere ritenuto legittimo quando da parte dell’imprenditore sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato “(…) a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore”.

Quale chiosa finale rimandiamo, quindi, al datore di lavoro

  •      in primis, una giusta quantificazione degli elementi facenti parte del Welcoming Package (con particolare riguardo alla formazione ed al  know how trasferito) ed

 

  •      in seconda battuta, la valutazione con il proprio Consulente del lavoro della miglior formula di tutela del citato valore.

Del resto se “un diamante è per sempre” altrettanto non possiamo ormai più dire per un dipendente….

Luca Bianchin, Consulente del lavoro