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09 Novembre 2017 | Approfondimenti tecnici

Il massimale INPS e le attività di controllo da parte del datore di lavoro

Chi si occupa mensilmente del processo di elaborazione paghe e contributi sa che si sta avvicinando il momento in cui si renderà necessaria l’attività di audit degli imponibili previdenziali individuali dei lavoratori dipendenti gestiti dallo Studio (o dall’Azienda) al fine di verificare coloro che supereranno per l’annualità corrente il massimale contributivo INPS, per quest’anno fissato in 100.324,00 euro.

Tale soglia reddituale, o meglio, di imponibilità previdenziale, rappresenta lo spauracchio degli addetti ai lavori in materia di payroll in quanto, dal suo superamento o meno, derivano diverse modalità e pesi di contribuzione.

In questa sede non vogliamo entrare nel merito degli aspetti tecnici e contabili della questione, bensì definire ed argomentare gli oneri in capo al singolo datore di lavoro previsti da prassi e normative vigenti.

Facciamo, però, un passo indietro nel tempo per recuperare i principali concetti di sistema contributivo e sistema retributivo fondamentali per capire l’importanza di tale soglia massima di imponibilità.

L’art. 2, comma 18 della L. n. 335/1995 ha stabilito per i lavoratori iscritti a forme pensionistiche obbligatorie a far data dal 1° gennaio 1996 (cd. “nuovi iscritti”) e privi di anzianità contributiva precedente, un massimale annuo della base contributiva e pensionabile, annualmente rivalutato dall’ISTAT, sulla base dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati [in applicazione del sistema contributivo].

Invece, per coloro che vantano anzianità contributiva già maturata in forme pensionistiche obbligatorie entro il 31 dicembre 1995 (cd. “vecchi iscritti”), il citato massimale annuo non trova applicazione, con la conseguenza che l’intera retribuzione imponibile viene assoggettata a contribuzione previdenziale [in applicazione del sistema retributivo].

Detto ciò, la prima attività che il datore di lavoro dovrà mettere in moto è quella inerente alla verifica del profilo previdenziale di ogni singolo lavoratore al fine di correttamente applicare o meno il limite massimale. Ma quali sono al riguardo le indicazioni del Legislatore? La risposta è molto semplice: nessuna. E’, infatti, il solo Istituto di Previdenza Sociale ad impartire, con proprie Circolari (circolare n. 177/1996 e n. 42/2009), disposizioni (prassi) ai singoli datori di lavoro.

Infatti, nel momento in cui il livello retributivo dei lavoratori interessati si attesterà al di sopra del massimale contributivo annuo, i datori di lavoro – secondo quanto disposto dall’INPS – dovranno acquisire da parte degli stessi una dichiarazione attestante l’esistenza o meno di periodi utili o utilizzabili ai fini dell’anzianità contributiva antecedenti il 1° gennaio 1996. In caso affermativo i datori di lavoro dovranno sottoporre a contribuzione pensionistica l’intera retribuzione senza, quindi, applicare il massimale contributivo.

Richiamo l’attenzione, però, al fatto che una delle citate Circolari, la n. 177 del 7 settembre 1966, esplicitamente riporta che “(…) Agli effetti degli adempimenti contributivi si osservano i seguenti criteri (…)” non titolandoli quali obblighi ma come indicazioni, tanto che, a seguire, lo stesso Istituto evidenzia che “(…) Il lavoratore è tenuto a fornire ai datori di lavoro gli elementi occorrenti per effettuare le relative operazioni (…)”. Ricordiamoci, infatti, che quando si parla di circolari dobbiamo annoverare le relative disposizioni quali  “prassi” visto che tali sorgenti dispositive non sono comprese nella gerarchia delle “fonti del diritto” tipiche del nostro ordinamento.

Fatto salvo questo importante presupposto, vi è quindi un impegno anche da parte dell’assicurato (rectius, dipendente) di dichiarare la presenza di contribuzione ante 1996 ovvero di “opzione” per il regime contributivo in modo da poter evitare l’applicazione del massimale; ma vi è soprattutto l’incombenza in capo al datore di lavoro di verificare il superamento del massimale e di attivarsi per ottenere dal lavoratore la dichiarazione di cui sopra.

A parere di qualche interprete, dalle indicazioni dell’INPS parrebbe comunque che il datore di lavoro abbia l’onere di attivarsi per le opportune verifiche anche in presenza di dichiarazione negativa (si usa infatti la congiunzione “e” prima di “in assenza di diverse risultanze” – Circ. 177/96), essendo egli responsabile, in ultima analisi, della compilazione delle denunce obbligatorie e dei versamenti contributivi.

Tale attività di indagine, pur non agevole (anche alla luce dei motivi attinenti alla riservatezza del lavoratore) risulta imprescindibile visto che non potrà essere opposta all’INPS la dichiarazione negativa del lavoratore, in relazione alla richiesta di pagamento della contribuzione dovuta in misura integrale sull’intero imponibile in caso di erronea applicazione del massimale; siffatto elemento potrà essere fatto valere solo nei rapporti tra azienda e dipendente.

A tal fine, però, ritengo legittimo un dubbio: come consideriamo l’eventuale documentazione e/o  le informazioni ricevute antecedentemente il raggiungimento del citato massimale, magari in sede di assunzione? Consideriamo ad esempio, l’eventuale informativa in materia di TFR (quella si obbligatoria per legge) che, generalmente, richiede la data di anzianità contributiva del lavoratore e che – spesso e volentieri – viene restituita “in bianco” da gran parte dei lavoratori; dovremmo considerarlo assolto l’onere del datore di lavoro di acquisizione del profilo previdenziale del lavoratore? E la consegna di un Mod. CUD (prima) o di una Certificazione Unica CU (oggi) che dichiara/certifica l’applicazione della contribuzione rispetto ad un determinato imponibile può essere utilizzata come prova (ovviamente per gli anni successivi a quelli certificati) della tacita accettazione da parte del lavoratore di corretta applicazione di uno o dell’altro regime previdenziale?

Per lo stesso combinato disposto della richiamate Circolari, in caso di domanda di acquisizione di contribuzione ante 1996 mediante “riscatto” (es. servizio militare), gli oneri di informazione a carico del lavoratore sono maggiori, in quanto egli dovrà dare, nel caso, tempestiva comunicazione al datore di lavoro del mancato assolvimento dell’onere economico relativo; in tal caso il datore di lavoro è nuovamente tenuto all’applicazione del massimale ex art. 2, comma 18 citato e al conseguente adeguamento delle denunce pregresse.

Gerarchia o meno, la fonte “circolatoria” comporta – soprattutto per quanto oggi rappresentato – un’importante principio di corretta gestione delle singole posizioni previdenziale; il difettoso operato, infatti, del datore di lavoro o del suo consulente potrebbero comportare importanti anomalie della posizione pensionistica futura del lavoratore.

Luca Bianchin, Consulente del lavoro